Vi invitiamo in anticipo a questo secondo incontro a dimensione europea — il cui obiettivo primario è quello di creare una coesione continentale tra la Spagna, la Francia, l’Italia e la zona plurilingue — per il quale ovviamente vi invitiamo a collaborare e vi ringraziamo fin d’ora di prendere nota della data.
Interroghiamo il peso delle origini; ciascuno, essendo nato da qualche parte, in una congiuntura storica precisa, e da genitori particolari, porta i marchi del legame sociale propri alla generazione precedente. Da questo dipende la trasmissione della grande storia così come delle singolarità soggettive.
Ora, cosa si constata?
“Quel che accade [ce qui se passe]” tra le generazioni, da distinguere bene da quel che passa [ce qui passe], accade regolarmente male. Esse si accusano a vicenda, eterna disputa degli antichi e dei moderni, dei giovani e dei vecchi…
Educare è uno dei mestieri impossibili, diceva Freud. Ogni genitore sogna di padroneggiare quel che trasmette alla sua discendenza, per ritrovarsi in essa e “per il suo bene”, pensa. Il fallimento è secolare, proprio assicurato, anche nei casi migliori. Ciononostante qualcosa passa attraverso quel che accade male [ce qui se passe] tra le generazioni, che è però altra cosa, e la psicoanalisi lo chiarisce.
I soggetti che vengono “a dirsi” non possono fare a meno, quasi
ineluttabilmente, di parlare dei loro antecedenti, delle condizioni della loro
nascita e della loro crescita. Nel racconto di questo mito familiare del
nevrotico ci sono sempre domanda d’amore frustrata, desideri insoddisfatti e
godimenti insufficienti; Freud ha fatto la diagnosi di queste sofferenze
originarie nel suo terzo capitolo di Al di là del Principio di piacere. Un’emergenza
ineluttabile di quel che Lacan ha chiamato “il genitore traumatico”.
È il nucleo originario di quel che si eredita da coloro che ci hanno generato e
che marcherà tutte le relazioni future tra il soggetto e l’Altro con il segno
della ri-petizione. Qualcosa si inaugura dunque, attraverso quel che accade.
Per forza di cose tramite il discorso ricevuto e suppone una lingua. Gli accidenti della storia, malattia, guerra, carestia, ecc., sono certamente all’origine di altri traumi, ma per la causazione delle soggettività è «la maniera in cui gli è stato instillato un modo di parlare»1 che è determinante. Da qui d’altronde lo scacco dell’educazione. Lacan ne ha dato la ragione in una formula, la più convincente: impossibile rendere conto del desiderio che vi ha operato. È questo, questo desiderio informulabile, che fa la beanza del progetto educativo e fa obiezione alle sue domande. Il risultato è che quel che si trasmette al di sotto tramite il desiderio — e che presiede alle identificazioni, perché esse «sono determinate dal desiderio»2 — è incalcolabile, ma ha un inevitabile legame con tutti gli indici della castrazione dell’Altro. Da cui talvolta anche, e tra l’altro, queste figure improbabili che escono dalle famiglie più assestate. Bisognerebbe dunque parlare delle sorprese di quel che è passato e anche, senza dubbio, dei casi in cui, all’inverso, una domanda ferrea arriva a soffocarlo per “nominare a” come dice Lacan. Il discorso ricevuto non veicola però soltanto il desiderio, esso porta anche un ordine di godimento e il dire genitoriale col suo desiderio singolare e incalcolabile è esso stesso preso in un ordine che lo oltrepassa, con l’identità dei costumi e gli habitus corporei così essenziali al sentimento di identità. Ciò di cui per l’appunto i soggetti nell’esilio sono privati. Ciononostante non saprebbero essere privati delle parole della loro lingua e del godimento che essa ha condensato, primo e ultimo ancoraggio di quel che viene dagli antecedenti. L’inconscio non si eredita, ma parla in una lingua trasmessa e che fissa una parte dell’essere di godimento.
1 J. Lacan, «Il sintomo», Conferenza del 4 ottobre 1975 a Ginevra, La Psicoanalisi n° 2, Astrolabio, Roma 1987, p. 18.
2 J. Lacan, «Del trieb di Freud», Scritti, Biblioteca Einaudi, 2002, p. 857.
C’è tuttavia un’altra parte che non viene dagli antecedenti, che non passa: il sintomo in quanto fixion di un “evento di corpo”. L’evento, l’inverso di quel che si trasmette, è un godimento che avviene ma che non era nel programma del discorso, e che non è neppure senza lalingua. Contrariamente al desiderio, il sintomo evento di corpo non viene dall’Altro, al contrario ne separa. Freud col suo Edipo della famiglia, in effetti una configurazione delle relazioni all’Altro, ha potuto far sorgere la speranza di ridurre attraverso la psicoanalisi gli imbarazzi sessuali dei nevrotici ma i fatti clinici hanno resistito bene e questa speranza ha avuto vita breve, nella misura in cui ci si accorgeva che è la sessualità stessa che è sintomo, comandata com’è non dall’ordine discorsivo ma dagli inconsci singolari.
Giornata di Scuola e Giornate dell’IF
9 – 10 e 11 Luglio 2021
Sede: Roma Eventi / Piazza di Spagna
Indirizzo: Via Alibert, 5A – 00187 Roma
Una Disputatio non è un collage di opinioni diverse, bensì un’argomentazione a più [à plusieurs], (secondo lo spirito collegiale che è il nostro), se possibile razionale.
Patrick Barillot
Laddove Freud credeva che il nucleo traumatico fosse specifico del nevrotico, Lacan generalizza il genitore traumatico a tutti i parlanti.
A ciò che non passa, il per-tutti del genitore traumatico, Lacan aggiunge il particolare di ciò che passa tra le generazioni. Al nucleo traumatico freudiano, egli sostituisce ciò che chiama la roulure1, ossia: “l’apprendimento che l’analizzante ha subito di una lingua tra altre, che è per lui lalingua”2.
Questo termine di roulure è probabilmente da intendere nella sua connotazione di licenza sessuale, poiché roulure è un termine peggiorativo per designare una prostituta.
La roulure ci indicherebbe dunque che lalingua singolare, che arriva al bambino dall’Altro, veicola i godimenti di questo Altro, e che a questo livello qualcosa passa dall’uno all’altro.
Che la lingua materna possa essere vettore di una forma di godimento si ritrova nella caratteristica di ogni lalingua, qualificata come oscena, e si sa che, con Lacan, l’oscenità si riferisce al godimento del corpo.
Attraverso l’equivoco tra questa oscenità e l’altra scena di Freud, ci indica che lalingua è parte interessata di questa altra scena, ossia l’inconscio, che il linguaggio occupa3.
1 In francese: rotolare, (molto fam.) donna di strada, battona.
2 J. Lacan, Seminario XXIV,L’insu que sait de l’une-bévue qui s’aille à mourre [inedito]– lezione del 19 aprile 1977: « C’est comme ça qu’il s’exprime formellement, à savoir que, à mesure que le sujet énonce quelque chose de plus près de son noyau traumatique – ce soi-disant noyau, et qui n’a pas d’existence, il n’y a que la roulure, que l’analysant est tout comme son analyste, c’est-à-dire… comme je l’ai fait remarquer en invoquant mon petit-fils …l’apprentissage qu’il a subi d’une langue entre autres, qui est pour lui lalangue… »
3 Ibidem: « Lalangue quelle qu’elle soit est une obscénité́. Ce que Freud désigne de – pardonnez-moi ici l’équivoque – l’obre-scène, c’est aussi bien ce qu’il appelle l’autre scène, celle que le langage occupe de ce qu’on appelle sa structure, structure élémentaire qui se résume à celle de la parenté. »
Patricia Dahan
Replica a questo approccio su ciò che passa
L’associazione dei due termini, lalingua e oscenità, è poco frequente in Lacan, però si deduce dai suoi detti. Nella “Conferenza di Ginevra” Lacan precisa che ciò che “sostiene il sintomo” si trova nella materialità delle parole, il motérialisme1, vale a dire quel godimento che si esprime ne lalingua. Un po’ più avanti, in questa stessa conferenza, paragona il bambino con un “colino che l’acqua del linguaggio attraversa lasciandovi qualcosa al passaggio”2.
La lingua, prima dell’apprendimento della lettura e della scrittura, è puro godimento del parlato, gli affetti si esprimono direttamente ne lalingua per il bambino.
C’è ciò che si trasmette attraverso l’educazione e la cultura e quel che passa, quel che attraversa “il colino” per lasciarvi qualche detrito, di cui l’analisi può rivelarci i frammenti e sorprenderci.
1 Termine coniato su matérialisme [materialismo] sostituendo la prima sillaba mat con mot (parola).
2 Lacan J., «Il sintomo», Conferenza di Ginevra, in La psicoanalisi n° 2, Astrolabio, Roma 1987, p. 22.
Colette Soler
Replica: Sulla «roulure»1, una lettura possibile
Il termine designa in effetti, fin dal XX secolo, letteralmente una prostituta. Una lavoratrice del godimento certo, ma dell’Altro, del padrone maschio. È possibile anche un uso figurato. Lacan lo usa in Televisione, evocando come roulures «gli incartati che fanno da polmone al classicismo»2. I nostri grandi, Corneille e Racine tra altri, le cui opere fanno proprio battere il marciapiede al servizio dei modi di godimento propri al discorso del padrone quando inventano la nozione di “gloria” nella quale l’uno del politico e l’amore si uniscono! Applicato alla generazione che rifila lalangue al bambino, ciò dice che l’uso de lalingua da parte della generazione educatrice è una “édupation”3 — al servizio di un discorso.
1 In francese: rotolare, (molto fam.) donna di strada, battona
2 Lacan J., Televisione, in Altri Scritti, Einaudi 2013, Torino, p. 521.
3 Termine coniato su “educazione” condensando éducation con duper, che in francese significa ingannare, abbindolare. [NdT]
Patrick Barillot
Da questo bagno di linguaggio osceno, il soggetto è dunque marcato, al livello del suo inconscio, attraverso questi segni di godimento fuori senso ordinati dal discorso parentale. Fin da principio, si stabilisce un legame tra le generazioni a un livello inconscio e, nel leggerlo, Lacan ne fa la struttura elementare della parentela. In modo così da mettere in discussione l’approccio levistraussiano alle strutture elementari della parentela2. Cosa che altri si erano già impegnati a fare, come l’antropologo Rodney Needham a cui Lacan si riferisce3.
Ci si può quindi chiedere fino a che punto le manifestazioni dei diversi modi del parlato dell’inconscio – sogno, lapsus, passando per il fantasma e il sintomo – affondano le loro radici in questa lingua trasmessa.
Si pone così la questione dell’interesse che l’analizzante potrebbe trovare nell’accorgersi degli effetti del discorso privato da cui si è costituito.
1 Questo viene ad iscriversi nel prosieguo della precedente Disputatio 1.
2 Ibidem. La parentela in questione mette in valore questo fatto fondamentale che è de lalingua che si tratta.
3 Rodney Needham in Rethinking Kinship and marriage (1971) terminava la sua introduzione con queste parole: Il termine «parentela» è dunque senza alcun dubbio ingannevole e un criterio erroneo per il confronto dei fatti sociali. Non designa alcuna classe distinta di fenomeni e nessun tipo distinto di teoria. Non risponde ad alcun canone di competenza e di autorità.
Colette Soler
Replica alla Disputatio 2
Tra il traumatismo descritto da Freud nel suo terzo capitolo di «Al di là del principio di piacere», che è per tutti e per sempre, e gli effetti de lalingua detta traumatica da Lacan, bisogna scegliere?
Ritengo che sia la stessa cosa. Il «genitore traumatico» che descrive Freud senza nominarlo come tale, non è traumatico che perché parla e usa dunque della lalingua. Ma non usa della lalingua che nel discorso di cui abbevera la sua progenie. Non si è mai visto un genitore traumatico attenersi ai borborigmi della lallazione passato il breve tempo di ciò che si nomina talvolta bêtification1, bisognerebbe piuttosto dire la bébêtification. Ora, il suo discorso ha un fine che non manca mai: rimettere il piccolo alle norme di ciò che si chiama educare.
Utile d’altronde per fare società, ma la questione dimora nella parte rispettiva di ciò che spetta a lalingua e al discorso nell’effetto traumatico.
1 Da bêtifier, in francese “fare l’ebete”. [NdT]
Diego Mautino
Replica alla Disputatio 2, a proposito della parentela:
A proposito dell’interesse che l’analizzante potrebbe trovare nell’accorgersi degli effetti del discorso privato da cui si è costituito; si percepisce bene che il soggetto imputa all’Altro, non al suo inconscio, ma alla sua parentela, il traumatismo, la mancanza a godere di cui soffre. «Se ci accorgiamo che non parliamo che di apparentamento o di parentela, ci viene l’idea di parlare di qualcos’altro ed è per l’appunto in questo che l’analisi, a volte, fallirebbe. Ma è un fatto che ognuno non parla che di questo»1.
I soggetti che vengono “a dirsi”, parlano del nucleo originario di sofferenze ereditato da coloro che ci hanno generato, e questo marchia tutte le relazioni dal soggetto all’Altro del segno della re-petitio. Qualcosa si inaugura attraverso quel che accade [ce qui se passe] tra le generazioni2, e la psicoanalisi riproduce questa produzione3. È nella misura in cui essa converge verso un significante, che ne emerge per colmare il buco nel Reale – questo fa troumatismo4 – che la nevrosi si ordina secondo il discorso i cui effetti hanno prodotto il soggetto5.
1 J. Lacan, Il Seminario, Libro XXV, Il momento di concludere, inedito.
2 Cf. Colette Soler, Presentazione del Tema: Quel che passa tra le generazioni, Giornate dell’IF, 2° Convegno Europeo, Roma 2021.
3 «Questa nevrosi, che non senza motivo viene attribuita all’azione dei genitori, è conseguibile soltanto nella misura in cui l’azione dei genitori viene articolata precisamente a partire dalla posizione dello psicoanalista». Jacques Lacan, Il sapere dello psicoanalista, Lezione del 4 maggio 1972, in Il seminario, Libro XIX, …o peggio [1971-1972], Einaudi, Torino 2020, p. 147.
4 Troumatisme, neologismo composto da trou [buco], e traumatismo. [NdT]
5 «Ogni genitore traumatico si trova insomma nella stessa posizione dello psicoanalista. La differenza è che lo psicoanalista, dalla sua posizione, riproduce la nevrosi, mentre il genitore traumatico la produce in maniera innocente.» Ibidem.
Clotilde Pascual
ossiamo parlare del più intimo e del più strano, quello che per Freud era il perturbante1, che a partire da Lacan chiamiamo il traumatico del godimento. È ciò che Lacan ha chiamato con il nome dell’Uno solo2, l’Uno del godimento, senza l’Altro, che abita in seno a lalingua. Tuttavia, le generazioni interpellano con la domanda: come fare con il godimento dell’Altro? Di fronte a questo, sorge l’insistenza dell’Uno del godimento, al di fuori di ogni semantica, poiché questa dimensione di godimento lascia il soggetto confrontato con la solitudine. Si vede bene nel sintomo del bambino, come esponente di quel che c’è di sintomatico nella coppia genitoriale.3
Quel godimento del bambino non si può afferrare, nel migliore dei casi fa un sintomo proprio, come evento di corpo.4
1 Freud S., «Il perturbante» [1919], in Opere, Vol. 9, Bollati Boringhieri
2 Lacan J., Il seminario, Libro XIX, …o peggio [1971-1972], Einaudi 2020, pp. 160, 161.
3 Lacan J., «Nota sul bambino», in Altri Scritti, Einaudi 2013, p. 367.
4 Soler C., Presentazione del tema delle Giornate dell’IF, Roma, 10/11 luglio 2021, in Quel che non si eredita.
Carmen Gallano
Per Lacan “passa” tra le generazioni il traumatico del verbo, del malinteso. “Fate parte della chiacchiera dei vostri ascendenti […] nuotavano nel malinteso a più non posso”1 ci dice nel suo ultimo seminario, prima di andarsene a Caracas. Quindi, quel che ci sostiene nell’inconscio si radica in quella trasmissione del malinteso, di generazione in generazione. Solo che il bambino si difende da questa follia separandosi con il suo fantasma, con quel che si genera nella faglia dell’Altro. Non potremmo dire allora che il fantasma fa esistere l’Altro che non esiste con una versione, quella del soggetto, quella del suo essere, la sua propria? Non è esso ciò che “non passa” tra le generazioni? Non è, l’Altro, se non una versione fantasmatica? Il sintomo lascia il soggetto solo, con un reale che esprime la faglia di quel fantasma, un ritorno del reale alla soggettività, malessere che permette la psicoanalisi…
1J. Lacan, « Le malentendu», in Ornicar? 22-23, 16-VI-1980.
Marina Severini
Quando si viene al mondo l’Altro è già lì e lo si incontra, in un modo o nell’altro, incarnato in primis dalle figure genitoriali. I primi legami hanno delle conseguenze, qualcosa passa. Nessuno però è determinato dal suo Altro familiare ed è il motivo per cui, per fortuna, non si possono fare previsioni attendibili su come sarà il nuovo nato. Ogni volta c’è dell’imprevedibile, l’inconscio fa di ciascuno uno diverso da tutti. Le bugie di due bambine (1913) interessano Freud perché vengono da bambine ben educate e il loro tratto sintomatico non è preso dall’Altro familiare, è una produzione propria, o meglio di quell’estraneo intimo che è sempre all’opera. Nel lavoro analitico i soggetti sembrano non poter fare a meno dal chiamare in causa le figure genitoriali, in genere per accusarle di quel che “è successo male”1; l’etica della psicoanalisi riconduce ciascuno alla sua responsabilità per la posizione che prende sia nei confronti dell’Altro che di ciò che lo separa dall’Altro, quel godimento fissato da un evento di corpo fuori programma. Qui, nessuna eredità.
1 Colette Soler, «Quel che passa tra le generazioni», Presentazione del tema del 2do Convegno europeo, Giornate dell’IF, Roma 10, 11 Luglio 2021.
Isabella Grande
Ciò che non passa ma è il proprio, l’inedito di ognuno
Quando si incontra ciò che fa ostacolo, quello che non passa di questo lascito dell’Altro, proprio lì dove si ha a che fare con qualcosa che si sottrae, che rifiuta di realizzare il godimento dell’Altro1, è proprio lì che compare della singolarità, dell’inedito, dissidente rispetto alla mera adesione a fare da appoggio a ciò che c’è già, imposto.
Si potrebbe forse dire che è proprio l’inedito che fa obiezione, la svista in un atto di obbedienza a rivelare la singolarità dell’inconscio? Forse sì e questo non si eredita!
Ciò che non si eredita, forse, è la chance di essere, imparando la confidenza in ciò che balbetta del nuovo, in ciò che prende forza dal desiderio intrasmissibile che può affiorare da quello che dell’Uno-tutto-solo è oltre l’appello all’Altro.
1 Cf. Soler, C., «Il rapporto sessuale tra le generazioni», in La querelle delle diagnosi, Formazioni cliniche del Campo lacaniano, Collegio Clinico di Parigi, Corso 2003/4, Quaderno n° 15, Edizioni Praxis del Campo lacaniano, Roma 2020, pag. 197.
Paola Malquori
Quello che non passa del lutto
Nella lettera a Binswanger del 12 aprile 1929 a proposito della morte di sua figlia Sophie, Freud dice che nel lutto rimane qualcosa di inconsolabile, un resto di libido che non può essere investito altrove, qualcosa rimane investito sull’oggetto perduto e non riesce a passare sui nuovi investimenti a venire, aggiungendo che è il solo modo di continuare l’amore. Essendo l’identificazione la prima forma di legame verso l’altro, ci chiediamo, nei vari momenti dell’analisi, momenti di fine e di passaggio, cosa resta delle antiche identificazioni che si sciolgono nel corso della cura, lasciando il posto alla fine dell’analisi all’identificazione al sintomo? Sono delle identificazioni che non si sciolgono del tutto, dei resti che non passano, quelli che rendono conto dell’oscillare fra lutto e entusiasmo alla fine dell’analisi?
È possibile partecipare al dibattito compilando il form che si trova in fondo alla pagina, il vostro commento sarà poi inviato alla Commissione scientifica, l’inviante riceverà una mail di risposta prima della pubblicazione.
Lingua(e) e passe
Elisabete Thamer
È stata un’opzione della nostra scuola fin dalla sua creazione: i cartel della passe sono internazionali, dunque plurilingue. Fin dall’inizio della nostra esperienza comune della passe, noi non abbiamo mai derogato a questa opzione. Innovativa in rapporto all’invenzione di Lacan del 1967, questa scelta solleva delle questioni sulla passe e il suo rapporto con la lingua, con le lingue, con lalingua. Che cos’è la trasmissione nella passe? Quali ne sono i limiti? Che cosa deve individuare un cartel? Le traduzioni sono una perdita o una risorsa per la passe? Quali sono le conseguenze di questa diversità di lingue nel dispositivo della passe per il lavoro di Scuola?
La passe è un’esperienza di trasmissione, un tentativo, per colui che vi si arrischia, di far passare alla Scuola ciò che l’ha portato a prendere il testimone dell’analista. Ora, la passe, come la cura, non ha altro medium che la parola e, proprio come in un’analisi, è essenziale che il passant testimoni ai passeur in una lingua che essi condividano. Ma condividere una lingua garantisce di per sé una trasmissione “fedele”? Niente è meno certo: «Una lingua fra tante altre non è niente di più che l’integrale degli equivoci che la sua storia vi ha lasciato persistere1».
Differenti elaborazioni di Lacan, tutte cruciali per la passe, puntano verso i limiti del linguaggio e della parola articolata: «aporia del suo resoconto», diceva2. Aporia quanto al desiderio (incompatibile con la parola3 ivi compreso quello dell’analista), aporia quanto all’oggetto, quanto all’atto (dove il soggetto è sovvertito), quanto al reale, quanto al godimento opaco del sintomo, quanto al dire che ex-siste ai detti… Come cogliere allora in ciascuna testimonianza di passe, in ciò che vi si dice, ciò che sfugge alle reti del linguaggio? È in fin dei conti una questione di lingua?
Nessuna lingua da sola potrebbe assicurare una trasmissione senza faglia. Le elaborazioni di Lacan su lalingua lo rendono evidente. Sempre singolare, lalingua – di cui è fatto l’inconscio4 – non si riduce a una lingua data: «lalingua non ha niente a che vedere con il dizionario, qualunque esso sia.5» Si può condividere poco o tanto una lingua, in nessun caso una lalingua.
Nella nostra Scuola, la passe implica il suo carico di traduzione. In primo luogo, quello del passant stesso, che deve trovare le parole per dire quello che sa, lui. C’è in seguito la “traduzione” che fa il passeur di ciò che ha inteso per trasmetterlo al cartel. E, infine, la traduzione della testimonianza raccolta nelle lingue parlate dai membri del cartel. Questo intarsio di lingue intorno ad una testimonianza, favorirebbe o sarebbe un ostacolo all’apprensione della logica dei detti e delle loro conseguenze?
Il plurilinguismo nel dispositivo della passe favorisce, dal punto di vista pratico, una più grande flessibilità per la composizione dei cartel e contribuisce a tessere dei legami di lavoro di Scuola al livello internazionale. Lingua(e) e passe è un tema che condensa al tempo stesso il più strutturale e singolare dell’esperienza della passe e la dimensione politica della nostra Scuola. Speriamo che questo incontro sia l’occasione per riflettere e condividere i differenti aspetti della nostra opzione iniziale.
1 J. Lacan, «Lo stordito», Altri scritti, Einaudi, Torino, 2013, pag. 488.
2 J. Lacan, «Discorso all’École freudienne de Paris», Altri Scritti, Einaudi, Torino, 2013, pag. 259.
3 J. Lacan, «La direzione della cura e i principî del suo potere», Scritti, Einaudi, Torino, 2002, pag. 637.
4 J. Lacan, Seminario XX, Ancora, Einaudi, Torino, 2011, pag. 132.
5 J. Lacan, Io parlo ai muri, «Sapere, ignoranza, verità e godimento», Astrolabio-Ubaldini, Roma, 2014, pag. 103.
Il pensiero umano tende costantemente alla totalità, da qui al totalitarismo non c’è che un passo.
Sigmund Freud ha cercato la soluzione di una certa preservazione strettamente formale del suo discorso nell’editoria da lui creata a tal fine, in attesa che un giorno qualche lettore potesse riscattarlo nel suo vero dire. Lo ha trovato, anni dopo, in Jacques Lacan.
Questi, più audace o chissà, più avvertito, ha inventato il dispositivo della passe. Di fronte alla lingua comune della trasmissione accademica, ha scommesso sulle lingue singolari, una per una, di ogni analisi. Non è una risposta difensiva, come possiamo osservare, è una scommessa decisa, rischiosa, che mira alla struttura stessa.
Se prendiamo l’esempio di Babele, vediamo l’arguzia di Dio. Non impedisce di costruire la Torre, semplicemente decompleta la lingua comune e sembra con buoni risultati. Arguzia simile quella che ci presenta Lacan: non si attacca la gerarchia, soltanto la si decompleta con il gradus.
Se eventualmente qualcosa può ostacolare la lingua comune non sarà altro che la singolarità di ognuna delle lingue che il dispositivo della passe permetterà, eventualmente anche, di ascoltare.
Questa è stata la scommessa.
Non è stata accolta molto bene, la nota agli italiani ne rende conto perfettamente.
Anche la successiva dissoluzione dell’École freudienne de París lo conferma.
In seguito, l’adozione senza molta speranza dell’École de la Cause freudienne lo corrobora.
L’invenzione freudiana, nell’attesa di un riscatto che sembrava impossibile, ha propiziato l’apparizione di un lettore che ha saputo raccogliere il suo lascito. L’invenzione lacaniana non mira allo stesso, non resta in attesa di un lettore, promuove piuttosto una molteplicità di lingue, il balbettare proprio di ognuna di esse, la loro dispersione per il mondo, come l’autentica Babele, in attesa del nuovo, un autentico lavoro collettivo di trasmissione.
Nel 1973 Lacan afferma che l’interpretazione analitica inventata da Freud attiene all’ “l’ordine della traduzione”, che provoca sempre una perdita, aggiungendo: «ebbene, ciò di cui si tratta è in effetti che lo perdiamo; tocchiamo, non è vero, che questa perdita è il reale stesso dell’inconscio.»1 Questa perdita è reale, dipende dal rapporto sessuale impossibile da scrivere e sorge alla fine della cura come ciò che chiamo resto intradotto. Nella procedura della passe si giunge ad affrontare abbastanza da vicino questo residuo interpretativo.
Elisabete Thamer l’ha ricordato nella sua argomentazione di presentazione: i cartelli della passe si vogliono decisamente plurilingui. Questa dimensione mi sembra tanto più preziosa in quanto permette di smarcarsi da un movimento emergente nel nostro tempo. Il caso della poetessa Amanda Gorman, avvenuto suo malgrado, sulla sua poesia The Hill We Climb, scritta per l’insediamento del presidente Joe Biden, è edificante. Poiché Gorman ha un colore della pelle chiamato nero, alcuni chiedono che sia tradotto da un poeta che abbia lo stesso colore. Conosciamo la logica che si basa su queste rivendicazioni di riconoscimento sociale. L’analista non è lì per giudicare i fenomeni sociali, ma per tentare di interpretarli. I poeti non sono al riparo dalle prigioni identitarie dell’immaginario. Questo significa che un poeta può essere tradotto correttamente solo da un altro con lo stesso colore? E questo colore dovrebbe fermarsi al colore della pelle o riguardare anche il genere, sapendo «che ci può essere donna color d’uomo, o uomo color di donna»2; e perché no, anche, renderlo una questione di generazione, anche di geografia? In questa logica puramente identitaria, un poeta può essere tradotto solo da un simile dello stesso colore della pelle, dello stesso genere, della stessa generazione, dello stesso paese. Solo lui stesso potrebbe alla fine essere autorizzato a tradursi.
Se la nostra Scuola – vale a dire ogni analista nella sua pratica – è orientata, lo è proprio dal reale del non rapporto sessuale, al quale obietta l’oggetto a, precisamente definito da Lacan come «perdita nell’identità».3 La nostra Scuola non può andare nella direzione della corrente segregazionista e identitaria di questo tempo, perché l’analista conosce le raccomandazioni di Lacan su ciò che deve sapere: «la spira in cui la sua epoca lo trascina nell’opera continuata di Babele, e sappia la sua funzione d’interprete nella discordia dei linguaggi.»4 La discordia delle lingue non ha nulla a che vedere con le lingue nazionali perché essa si trova al cuore di ogni essere parlante. L’analizzante, necessariamente alla ricerca di sé nella sua cura, inciampa in questi rimasugli di linguaggio fuori senso che il discorso interiore dei suoi pensieri inconsci ripara nel suo fondo.
La cura, come i dispositivi internazionali della passe, operano contro ogni tra-sé, tenendo conto del colore non-tutto traducibile dell’essere che parla. «L’essere del colore»5 del sesso non dice granché del soggetto, ci ricorda Lacan. Yves Bonnefoy, poeta e saggista francese, si chiese come tradurre, poeticamente, il colore rosso di quel fiore effimero con l’aiuto della parola rosso che esprime il concetto eterno di un colore.
1 J. Lacan, intervista su France Culture nel luglio 1973, in occasione del 28° Congresso di psicoanalisi internazionale a Parigi e pubblicato da Le Coq-Héron, n. 46-47, Parigi, 1974.
2 J. Lacan, Il Seminario, Libro XXIII, Il sinthomo, Astrolabio, Roma, 2006, p. 112.
3 J. Lacan, Il Seminario, Libro XVI, Da un Altro all’altro, Einaudi, Torino 2019, p. 15.
4 J. Lacan, «Funzione e campo della parola e del linguaggio», in Scritti, vol. I, Einaudi, Torino 2002, p. 315.
5J. Lacan, Il Seminario, Libro XXIII, Il sinthomo, Op. cit., ibidem.
Nella diversità linguistica della nostra Scuola c’è una “lingua” comune: quella di Lacan e quella di Freud, dalle quali derivano le altre “lingue sorelle”. La maggior parte di noi è ancora nel balbettio di questa lingua comune.
Nella presentazione del tema della Giornata di Scuola “Lingue e passe, Elisabete Thamer menziona un passaggio del Sapere dello psicoanalista: «lalingua non ha niente a che vedere con il dizionario, qualunque esso sia». Un po’prima di dire questo, Lacan fa un lapsus, perché volendo riferirsi al dizionario di psicoanalisi di Laplanche e Pontalis, lo cita come “dizionario di filosofia”. A proposito di quel lapsus, che a Lacan non passa inosservato, dice “guardate il lapsus. In ogni caso, questo vale la Lalande“, che era un noto dizionario di filosofia, di grande successo per decenni.
Lalande elaborò il suo dizionario tra il 1902 e il 1923. All’inizio del XX secolo c’era un ottimismo globalizzante intorno all’esposizione universale di Parigi, ed era stata organizzata una delegazione per l’adozione di una lingua ausiliaria internazionale, che finì frammentata nel 1907 nel combattimento dei sostenitori delle due lingue artificiali che si postulavano come universali: gli esperantisti di Zamenhof e gli idisti del falso marchese di Beaufront.
Nel 2021 siamo piuttosto nel pessimismo globale per effetto della pandemia e sotto gli effetti disgreganti dei diversi nazionalismi, di diverso segno.
Prima di fare quel lapsus, Lacan stava sviluppando la frontiera tra sapere e verità. Frontiera nella quale si sostiene il discorso analitico. È subito dopo aver parlato di quel confine che fa il lapsus, dicendo filosofia invece che psicoanalisi.
Dal pubblico della sala, davanti a quel lapsus e al commento di Lacan “questo vale la Lalande“, qualcuno ha detto “lalingua?”, aggiungendo così un altro lapsus. Lacan dice che, da quel momento, scriverà lalingua in una sola parola. È allora che dice che “Lalingua non ha niente a che vedere con il dizionario“. Aggiunge che l’inconscio ha a che vedere soprattutto con la grammatica e con la ripetizione, cioè un «versante totalmente contrario a quello per cui serve un dizionario»1. L’aspetto utile per la psicoanalisi nella funzione de lalingua è la logica.
Quando parliamo della passe, parliamo la stessa lingua? Si sente [on entend ], si intende, lo stesso per le passe in tutto il mondo? È la stessa “lingua” che punta alla passe in quanto localizzazione del passaggio all’analista – sempre così inafferrabile- come quella che punta al sinthomo, ad un sapersela cavare, o quella che punta alla soddisfazione della fine?
É meglio che queste “lingue” della passe non si trasformino in un dizionario di filosofia. Scusate…volevo dire di psicoanalisi. Questo effetto potrebbe fare della psicoanalisi una lingua morta.
La raccolta delle diverse testimonianze del dispositivo di passe ne fa piuttosto un deposito di ciò che in esse si deposita, i sedimenti di ciò che del reale non è raggiunto con la parola e che si tratta di trasmettere, dimostrare. «Dove meglio ho fatto sentire che con l’impossibile da dire si misura il reale?2». Deposito quindi, di un sapere non tutto.
Come è possibile che, nonostante l’”intarsio di lingue” -come lo chiama Elisabete- implicate nella testimonianza di passe, si possa concludere con una nominazione di AE, nonostante gli effetti di perdita che ci sono sempre nella traduzione, dal passant al passeur e dal passeur al cartel plurilingue della passe? Lei si chiede: «Questo (…) favorirebbe o sarebbe un ostacolo all’apprensione della logica dei detti e delle loro conseguenze?3». Rispondo con un’altra domanda. Se si tratta di apprensione della logica dei detti, è così importante la differenza di lingue?
Nella traduzione di quell’ “intarsio di lingue” non solo c’è perdita, ma c’è anche un plus che deriva da quel passaggio da una “lingua” ad un’altra. Questo accade quando si passa dalla lingua corrente ad un equivoco di linguaggio. Il malinteso di cui siamo figli è un’ulteriore garanzia per non confondere il sapere e la verità. Vi è anche, senza dubbio, il plus del transfert di lavoro che si crea con i cartel plurilingue.
Naturalmente, in tutto questo, bisognerebbe esprimere una riserva: la differenza di lingue non dovrebbe essere così grande da non far sentire nemmeno ciò che viene trasmesso, e sia tutto un malinteso.
La scommessa è come dimostrare le «tre di-mensioni dell’impossibile così come si dispiegano nel sesso, nel senso e nel significato»4 non facendone una verità religiosa ed evitando di cadere nel dizionario. È una scommessa che ci unisce nella diversità delle nostre lingue e nei loro equivoci.
Di fronte alla tendenza omogeneizzante della globalizzazione, la molteplicità di lingue, che resistono sempre, insistono. Di fronte alla “lingua” liquida della post-verità, che disconnette il soggetto da ciò che lo causa, la Scuola promuove, sostiene, difende la scelta di rilegare i soggetti con la parola, con la loro verità, con il sapere che non si sa. È così che intendo quello che dice la nostra Carta quando dice che “La Scuola si dedica a coltivare il Discorso analitico”.
1 Lacan, Io parlo ai muri, «Sapere, ignoranza, verità e godimento», Astrolabio-Ubaldini, Roma, 2014, pag. 103.
2 J. Lacan, Lo stordito, in Altri Scritti, Einaudi, Torino 2013, p.493.
3 Elisabete Thamer, Presentazione del tema delle Giornate di Scuola “Lingue e passe”.
4 J. Lacan, Lo stordito, op.cit., p. 485.
Lacan propone la passe come il dispositivo in cui ascoltare quel «non-tutto da cui procede l’analista», colui che porta «il marchio» lasciato dalla propria analisi e che starà ai suoi congeneri «saper trovarlo»1.
Il marchio di cosa? Di un desiderio inedito, di aver colto il proprio orrore di sapere, di aver catturato il miraggio della verità e di poter così testimoniare della verità mendace 2, tutto per poter rispondere alla domanda che Lacan si pone e lancia agli analisti: cos’è che spinge qualcuno ad autorizzarsi, ad istorizzarsi da sé e occupare il posto dell’analista?
Dall’entusiasmo prodotto dall’«aver isolato il (…) proprio orrore di sapere»3 alla soddisfazione come affetto che segna la fine dell’analisi 4, ciò che si spera di raccogliere nella passe ha a che vedere soprattutto con gli effetti soggettivi prodotti dalla cura, effetti che si traducono in affetti.
Questi affetti, l’entusiasmo, la soddisfazione, possono essere captati qualsiasi sia la lingua in cui si esprimono, giacchè non si tratta del senso, ma di qualcosa che oltrepassa le parole, i significanti. Qualcosa che dipende dall’essere riusciti a purificare il senso, fino a toccare gli effetti de lalingua che affettano il godimento.
La preminenza del significante sul significato orienta la nostra pratica analitica. Non si tratta di “comprendere” il racconto dell’analizzante, ma precisamente di captare il dissonante, ciò che si ripete, gli equivoci, per portarlo al limite dove «lo spazio di un lapsus non ha più alcuna portata di senso»5.
Certamente per condurre un’analisi bisogna parlare la lingua dell’analizzante, ma nel Cartel della passe non si tratta di fare un’analisi dell’analisi del passant, quanto di raccogliere la sua testimonianza, di raccogliere gli effetti, impossibili da calcolare, che ci sono stati per lui nel suo incontro con questo “sapere senza soggetto” implicito ne lalingua. Come dice Colette Soler in Wunsch n.10, non si accede a questo sapere, ma si può cedere sul “non voglio saperne niente di questo e afferrare alcune nozioni, puntuali ed effimere”.
Pertanto, in un Cartel plurilingue, anche se la traduzione è necessaria, queste nozioni puntuali ed effimere, se sono state captate, passano. Perché non è sempre necessaria una “traduzione” quando si parla, quando mettiamo in parole ciò che il linguaggio non arriva a cogliere?
La soddisfazione che segna la fine dell’analisi si sente non per una conclusione articolabile ai significanti del soggetto, al significato del suo sintomo, ma per i viraggi che hanno modificato il suo modo di godere del sintomo e hanno affettato la sua pratica clinica, e anche nei punti di arresto, nell’impossibilità di andare oltre nella decifrazione.
Si tratta dunque di sentire se alla fine dell’analisi c’è stata la soddisfazione che permette di porre fine alla deriva infinita del senso, al «miraggio della verità, da cui ci si deve attendere solo la menzogna»6, e quindi di trovare il limite dell’impossibile da elucidare, in modo che, avendo potuto sperimentare il finito dell’analisi, si possa occupare il posto di oggetto causa per i propri analizzanti.
Quando questi effetti di affetti si danno in una testimonianza, questo accade, e produce effetti anche su coloro che sono coinvolti nella passe. La passe è un’esperienza che tocca i passeurs e i membri del Cartel, e quando accade qualcosa provoca in loro l’intima convinzione che “c’è dell’analista”.
1 Lacan J., “Nota italiana”, in Altri Scritti, Einaudi 2013, Torino, p. 304-305.
2 Lacan J., “Prefazione all’edizione inglese del Seminario XI”, in Altri scritti, Einaudi Torino 2013, p.565.
3 Lacan J., “Nota italiana”, op.cit., p.305.
4 Lacan J., “Prefazione all’edizione inglese del Seminario XI”, op.cit., p.565.
5 ibidem, p. 563
6 ibidem, p. 565
In occasione del Convegno europeo di Roma che si profila all’orizzonte, mi pare opportuno, in seguito agli ultimi cartel della passe a cui ho partecipato, interrogare la struttura della passe o piuttosto del cartel internazionale della passe all’EPFCL.
I cartel plurilingue funzionano e hanno portato ad alcune nominazioni di AE. Sta a noi interrogarci sulle virtù del plurilinguismo e sui suoi eventuali limiti. In seno a tali cartelli internazionali due se non tre lingue coesistono, ed è regolare che i partecipanti, al di là della loro lingua materna, capiscano almeno un’altra lingua.
La pratica mostra che non è richiesto il bilinguismo per intendere « se [ça] passa o se [ça] non passa». Al contrario, ed è la mia prima osservazione, la non-padronanza perfetta di una lingua non costituisce un ostacolo reale poiché in effetti, ciò che si coglie nello scambio tra i cartellanti, è per l’appunto il modo in cui una logica si evidenzia attraverso alcune testimonianze dei passeurs. Ed è tale logica che permette di intendere, perlomeno di percepire o di sentire ciò che l’analisi ha realmente modificato per il passant in diversi registri: in merito alla sua storia e i suoi momenti cruciali, al suo rapporto al reale, alla riposta portata al non rapporto sessuale, al godimento irriducibile, al suo rapporto con la psicoanalisi. Il fatto che ci si aspetti attraverso il cartel di poter individuare questi mutamenti valorizza gli effetti di un’analisi e in fin dei conti il passaggio dall’analisi personale alla psicoanalisi, alla causa analitica.
Noi sappiamo che la fine di un’analisi non pregiudica ciò che sarà, che diventerà questo analista nel suo atto ma la passe deve poter dare al cartel alcune indicazioni che d’altronde possono essere di supporto alla nominazione. Questo spiega quello, in particolare il numero relativamente basso di nominazioni in confronto al numero di persone che si presentano alla passe.
È possibile, nell’après-coup, cogliere ciò che è stato decisivo in un’analisi, ciò che ha svelato al passant la sua posizione di soggetto diviso, S, e l’irriducibile del suo godimento sintomatico di cui dovrà tener conto nella sua offerta di psicoanalisi? Se ci sono state nominazioni da qualche anno a questa parte, dobbiamo ammettere che i cartelli plurilingue hanno potuto mettere il dito sugli effetti immaginari inevitabili legati al fatto di «conoscere» il passant precedentemente alla sua domanda di passe, e dunque di evitarli. Analogamente gli effetti di senso si trovano ridotti mentre possono benissimo interferire se viene fatto uso di una sola lingua: conosciamo gli inconvenienti legati alla credenza di intendere la stessa cosa se si parla la stessa lingua! Sono tutte queste attese che il cartel internazionale mette in discussione e a cui occorre aggiungere che ciò che succede (se passe) agli analisti che compongono un cartel: che sia obbligatoriamente effimero, anche in questo caso riduce gli effetti di colla e gli effetti di implicito legati alla lingua comune.
Inoltre, punto importante nel lavoro di elaborazione del cartel, coloro che possiedono una lingua che altri non padroneggiano completamente, fanno lo sforzo di far capire cos’è che costituisce il cuore di questa o quella testimonianza.
Al di là di queste considerazioni, in maniera indiretta, ogni membro del cartel può intendervi alcuni elementi riguardanti la pratica analitica in altri paesi, precisamente in funzione di ciò che ognuno sostiene a proposito di quel che ha inteso della testimonianza dei passeurs, in una parola, il vivo, il singolare del caso così come, d’altro canto, i limiti dell’efficienza di un’analisi incontrata.
È da notare che il particolare del sintomo è legato a delle particolarità di lingua, al modo in cui un certo significante ha marcato il corpo del passant o della passante. In fondo, il plurilinguismo del cartel permette di passare dalla generalità (il senso, il godimento del senso) alle particolarità di una lingua alle quali è legata la concezione dell’analisi e strada facendo, alla singolarità (esemplificata dal «lo si sa da sé» di Lacan): il plurilinguismo favorisce il reperimento di una «lingua tutta per sé» per parafrasare il titolo di Virgina Woolf.
Il plurilinguismo ha questo effetto positivo di orientare i membri del cartel, di «spingerli» verso la trasmissione poiché scarta il «bene inteso» proprio alla lingua unica condivisa. L’eventuale fascinazione, l’adesione agli effetti di significazione sono ridotte per lasciare spazio all’estrazione degli S1 che hanno determinato il racconto del passant e la sua formalizzazione. L’esperienza ha mostrato che è possibile far intendere a un membro del cartel che non parla la lingua del passant (che certamente è conosciuta da diversi altri membri di questo cartel) ciò che suona e risuona nella lingua del passant, in maniera tale che possano essere intesi l’originalità, la singolarità o gli zoppicamenti di una cura.
L’analisi secondo Lacan è oggi centrata sul nodo formato dal godimento, il reale e la lingua, nodo che supporta un dire singolare, il compito del cartel (per non dire il suo dovere) consiste nel cogliere gli effetti del nodo fatto male all’entrata dell’analisi, il suo snodamento (fantasma attraversato) e lo scioglimento dell’esperienza che non è altro che il nuovo annodamento che ha prodotto l’analisi.
Che il plurale delle lingue sia stato fin dall’inizio adottato dai cartels dell’EFPCL nel contesto della procedura della passe si rivela conforme all’idea della Scuola Internazionale. Inoltre, tale plurale permette di lavorare sugli effetti di lingua che hanno tanto impegnato Lacan negli ultimi anni del suo Seminario: trattare i godimenti mettendo in evidenza i poteri delle lingue (cf. il Seminario Ancora, Les non-dupes errent, la conferenza di Roma del 1974). Babelizzarsi va bene con l’uscita auspicata del Dio unico. Colui che testimonia interpreta e dunque traduce, il cartel ascolta/intende…e interpreta.
In definitiva, ciò che Lacan aveva introdotto nel 1953 in «Funzione e campo della parola e del linguaggio» si trova a risuonare forte nel 2021, nel corso di questo anno di pandemia che segna in modo brutale i corpi e le menti e ha costretto la stessa pratica della psicoanalisi e della passe a delle modifiche importanti, sulle quali, una volta padroneggiato il virus, sarà opportuno ritornare. L’anno che abbiamo appena passato fa risuonare la frase di Lacan, a pag. 315 degli Scritti:
«Conosca egli a fondo la spira in cui la sua epoca lo trascina nell’opera continuata di Babele, e sappia la sua funzione d’interprete nella discordia dei linguaggi».
Nel mettere l’accento su Babele in questo modo, senza dubbio abbiamo qualche chance di imparare del nuovo a partire da questa trasformazione da discordia in accordo che a volte apre ad una nominazione di AE.
È possibile partecipare al dibattito compilando il form che si trova in fondo alla pagina, il vostro commento sarà poi inviato alla Commissione scientifica, l’inviante riceverà una mail di risposta prima della pubblicazione.
Le iscrizioni sono chiuse
● Documento I – Proposta iniziale – Lettera del 17 agosto 2018
● Documento II – Convegno europeo dal 12 al 14 luglio 2019. Protocollo per l’avvio e l’organizzazione delle Convenzioni europee.
● Documento III – Convegno europeo dal 12 al 14 luglio 2019. Regolamento finanziario del 13 dicembre 2018
● Documento IV – Convegno europeo dal 12 al 14 luglio 2019. Lettera d’invito ai candidati alla commissione scientifica del 2do Convegno europeo
● Documento V – Resoconto della Riunione 3a Convenzione europea, Roma 11/07/2021
Al momento il dibattito è chiuso
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